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Michele Lasala

Michele Lasala

Nato a Barletta. Laureato in Scienze filosofiche presso l’Università degli studi di Bari “A. Moro”. Storico della filosofia e critico d’arte. È autore di diversi articoli, di saggi e di prefazioni. È contributor presso diverse riviste scientifiche e testate giornalistiche, tra cui «Philosophy Kitchen» (Università degli studi di Torino), «Micro Mega» (L’Espresso, Roma), «Europea» (Aracne, Roma), «Lo Sguardo» (Edizioni di Storia e Letteratura, Roma), «Diacritica» (Diacritica Edizioni, Roma), «La Gazzetta del Mezzogiorno» (Bari), «Democrazia socialista», «Topologik» (Luigi Pellegrini Editore, Cosenza), «Nipoti di Maritain» (Lucca), «Verso l’Arte». È citato in qualità di critico nel Catalogo d’Arte Moderna (Editoriale Giorgio Mondadori), n. 56 del 2020. Con lo studioso di filosofia politica Francesco Postorino ha realizzato alcune interviste apparse su “Liberta e Giustizia” (2017), “L’Antidiplomatico” (2018), “Democrazia Socialista” (2018).



Arte e Consumo. L’Universo Estetico dell’Età Contemporanea

Il concetto di “contemporaneo”, come d’altronde quello di “moderno”, desta sempre non poche preoccupazioni nello storiografo, e ciò perché non è mai possibile definire in modo chiaro e univoco i limiti cronologici, l’inizio e la fine, di quella fase della storia coincidente col nostro tempo e che potremmo denominare per l’appunto “età contemporanea”. Quando comincia e quando finisce? Per comodità però possiamo – almeno in questa sede – adottare la categoria di “contemporaneo” per indicare un periodo che va grosso modo dagli anni Sessanta del Novecento ai giorni nostri, l’equivalente – in sostanza – di due generazioni. Dando dunque uno sguardo a volo d’uccello a questi ultimi sessant’anni, è possibile ravvisare o individuare almeno quelli che possono essere considerati i caratteri dominanti e caratterizzanti dell’arte contemporanea, e che in qualche modo già Gillo Dorfles – in una riflessione di più ampio raggio – aveva per certi versi colto e intelligentemente analizzato: il simbolo, la comunicazione e il consumo. Fattori non irre-lati fra loro ma – al contrario – perfettamente uniti, intrecciati e fusi l’uno dentro l’altro. Dorfles scriveva ciò proprio negli anni Sessanta, ma la sua riflessione continua ad avere validità ancora oggi se pensiamo ai nuovi strumenti messi a disposizione dalla tecnologia. Questi mezzi non sol-tanto hanno reso più forte il legame tra simbolo, comunicazione e consumo, ma hanno addirittu-ra ampliato a dismisura il loro orizzonte spaziale e temporale. Essi infatti hanno scardinato ogni confine geografico o geopolitico, andando a creare uno spazio a tutti gli effetti “globale” dove l’arte – nello specifico – non è più circoscrivibile dentro un territorio preciso e dove non è più possibile concepire nessuna gerarchia di valori, estetici ed etici insieme. In tale dimensione plura-le e “postmoderna”, valgono i principi della tolleranza e del sincretismo, della convivenza di pun-ti di vista differenti, della coesistenza di interpretazioni molteplici e discordanti. Il “pensiero for-te” dei grandi sistemi e delle grandi narrazioni ha lasciato campo libero al “pensiero debole”. E tali principi hanno contribuito ad aprire quella strada che va sempre più verso – per riprendere Umberto Eco – un «inarrestabile politeismo della Bellezza».

Ma in questa «orgia della tolleranza» – sempre per citare Eco – possiamo scorgere un ele-mento costante, una specie di tessuto connettivo che tiene insieme le molteplici esperienze dell’arte contemporanea e che rende fortemente operativa la triade simbolo-comunicazione-consumo. Serpeggia, infatti, sottotraccia, lo spirito di Marcel Duchamp, in una linea ideale che parte appunto dall’inventore del ready-made e finisce (almeno per ora) a Maurizio Cattelan, il quale non a caso vede America (il wc rivestito di oro massiccio del 2016 collocato nel bagno del Guggenheim Museum di New York) come la chiusura di un ciclo che parte proprio dalla Fontana di Duchamp del 1917 e passa attraverso la Merda d’artista di Manzoni, che è del 1961. Una linea, diremmo, “filosofica” e concettuale che si sviluppa sotto il segno del consumo e che vede proprio nell’oggetto industriale, o oggetto ritrovato, o oggetto residuale, lo strumento per eccellenza per “dire” ovvero esprimere l’obsolescenza su cui si fonda – tragicamente – l’età contemporanea. E se il primo Novecento è stato contrassegnato dalle due guerre mondiali, che hanno diffuso un generale sentimento di incertezza e di disillusione verso i valori tradizionali, sgretolati e spazzati via in un batter d’occhio; tutta la seconda metà del secolo appena trascorso è innervata dal con-sumismo spicciolo e superficiale che può racchiudersi, in ultima analisi, nella formula efficace e sintetica dell’“usa e getta”, che investe oramai ogni aspetto della vita, da quello domestico a quello pubblicitario, dall’arte al design, dalla televisione al cinema, dalle relazioni umane all’ambiente circostante. Tutto è utilizzabile e può essere gettato non appena perde la sua fun-zione.

Così Stefano Zecchi sul finire del Novecento poteva scrivere che “Il linguaggio scientifico del XX secolo e la massificazione della cultura, iniziata con la rivoluzione industriale, hanno li-quidato il significato di verità dell’arte e della religione, secolarizzando quest’ultima e riducendo l’arte a un noioso e inutile esercizio di stile. Il nostro stile è il non-stile, che riflette una vita senza gerarchie di valori, che afferma l’indifferenza tra il tutto e il nulla. La rappresentazione del non-stile è un manierismo ornamentale che vediamo dilagare nelle espressioni artistiche di questa se-conda metà del secolo, materiali residuali, eredi della grande dissoluzione nichilista dell’espressività della forma, propria delle avanguardie degli inizi del Novecento”.

I primi vent’anni del nuovo millennio sembrano ancora influenzati, tutto sommato, dal novecentesco sentimento dell’obsolescenza, che ora però sembra espanso su scala globale. Gli ar-tisti, dal Brasile alla Cina, dal Perù all’India, passando per l’Europa oramai non più centro geo-grafico e culturale del mondo, esprimono tale condizione, mettendo così in luce quello che i te-deschi chiamano Zeitgeist, lo spirito del tempo; nozione che sembrava morta e sepolta sotto i col-pi d’ascia delle correnti positiviste, ma che proprio grazie all’arte si rivitalizza e riprende ossigeno. Lo spirito della nostra epoca e dunque l’universo estetico dell’arte contemporanea è segnato pro-fondamente da questa ferita dell’impermanenza. Ce ne accorgiamo non soltanto nelle grandi ma-nifestazioni d’arte internazionali, dalla Biennale di Venezia alla Biennale di Istanbul, da Manife-sta alla Biennale dell’Avana e ad Art Basel, ma anche dando uno sguardo a tutto quell’arcipelago di artisti diremmo “defilati” che, sfuggendo alle logiche del mercato e non cedendo al fascino del-la figura dell’artistar, hanno deciso di inseguire i propri sogni e di restare appartati. Anche in que-sti artisti traspare pur sempre, in filigrana, quella nota dolente e tragica dell’obsolescenza.

Tutto è destinato a esaurirsi: questo sembra essere il pensiero dominante; perfino l’opera d’arte in quanto tale. Lo dimostrano esperienze come quella di Banksy attraverso un’opera-simbolo come L’amore è nel cestino del 2006 e quella – ancora una volta – di Cattelan con Come-dian del 2019, la provocatoria e dissacrante banana attaccata con lo scotch sulla parete di un pa-diglione di Art Basel Miami, e da ultimo venduta all’asta per 6,2 milioni di dollari, per poi essere letteralmente mangiata. La banana di Cattelan è l’emblema di come l’arte abbia perduto la pro-pria sacralità; di come l’arte non abbia più la prerogativa della unicità; e di come essa abbia defi-nitivamente perduto quella che Benjamin chiamava “aura”. L’opera d’arte, nell’età contempora-nea, può – al contrario – essere usata e consumata, al pari di qualunque prodotto industriale, fa-cilmente sostituibile con un altro del tutto uguale.

Ma c’è un altro artista che aiuta a comprendere appieno lo spirito della nostra epoca: Jeff Koons. Come scrive Renato Barilli – le cui posizioni però non sempre accettiamo – «A proposito di Koons si potrebbe parlare di un rilancio del ready-made duchampiano, passato attraverso il gi-gantismo di Oldenburg […]: si torna ad ammettere che il nostro è il tempo dell’oggetto industria-le, della merce ammessa in quantità smisurata sul mercato, ma se Duchamp ci invitava a stupirci di fronte al più casuale esito di questa creatività anonima, e Oldenburg ci invita ad ammirare gli utensili più comuni e quotidiani, le scelte di Koons stanno a indicare che ora il fruitore di massa aspira a un qualche grado di nobilitazione, nel momento di fare un acquisto; è come riconoscere che la fase citazionista ha lasciato qualche segno, e dunque si vuole che la merce acquistabile sul mercato abbia una sua “aura”, anche se il valore auratico deve fare i conti con la produzione di serie […]. Koons eleva i suoi monumenti al bisogno istintivo che abbiamo oggi di circondarci di cianfrusaglie intinte nel kitsch». E il kitsch è cattivo gusto, è riduzione dell’arte a ninnolo. Ma Koons, come in un binocolo rovesciato, ribalta l’immagine e fa diventare monumentale il gingillo, attribuendogli nobiltà e valore estetico. Ma in questa operazione c’è sempre il tentativo di svela-re e mettere a nudo la crisi profonda del nostro tempo; una crisi – etica ed estetica insieme – che si riflette proprio nella desacralizzazione dell’opera d’arte, ridotta a oggetto tra gli oggetti, e rei-terata all’infinito attraverso i mezzi di diffusione di massa. Esattamente come può essere la pub-blicità di un prodotto per sbucciare meglio le banane o addirittura per pulire il wc.

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