
Michele Citro
È un editore, curatore d’arte e saggista italiano. Ha all’attivo diverse pubblicazioni riguardanti principalmente la storia della filosofia politica e morale, l’arte, i videogiochi e la cinematografia animata. Ha ideato e curato diversi eventi culturali, fra cui: «Idilli Cromatici. Omaggio a Leopardi a 200 anni dall’Infinito», «Tra Inferno e Paradiso XX/21», «La Biennale del Gattopardo. Homodeus il dilemma dell’UomoDio», «Malta Art & Design Week», «Raffaello visita le carceri di Salerno», «La Biennalina di Maiori Costa d’Amalfi» e «Futurismi Contemporanei», quest’ultima in parte presente alla LX Biennale d’arte di Venezia. Gestisce, in collaborazione con l’associazione culturale Biennale Spaces, due spazi d’arte a Venezia: Castello96 e Santanna992. Per l’edizione 2023 dell’AACC-I ha selezionato e proposto 8 artisti, che collaborano o hanno collaborato con lui, che secondo la sua esperienza di critico e curatore, rappresentano al meglio e nella maniera più ampia e variegata possibile — per stile e tecnica — il panorama italiano dell’arte contemporanea. Questi sono: Saturno Buttò, Andrea Morucchio, Giuseppe Negro, Eliana Petrizzi, Marialuisa Tadei, Filippo Tincolini, Gaetano Tommasi ed Antonio Tropiano.
La Rinegoziazione del Canone
Occidente, Oriente e la Sfera della Contemporaneità
L’Annuario d’Arte Contemporanea Cina-Italia 2024 (AACC-I) non si presenta come una mera giustapposizione geografica, ma come la documentazione di uno sfasamento dialettico tra due poetiche nazionali. Se la selezione di artisti italiani — in parte anche da me proposti — si orienta verso una ricerca che dà per assodato il canone del Novecento, utilizzandolo come mera grammatica per navigare le problematiche del contemporaneo, la controparte cinese sorprende per la sua intensa e a tratti filologica metabolizzazione del Modernismo occidentale.
Questo confronto rivela la vera, complessa, ricerca che unisce le due correnti: la rinegoziazione della propria autonomia artistica in un contesto globale.
L’analisi della produzione cinese selezionata evidenzia una profonda, quasi ossessiva, frequentazione dei maestri del XX secolo. Dal lirismo cromatico di Van Gogh all’immediatezza dell’Art Brut, dalle geometrie cinetiche della Op Art alle sospensioni spaziali di Edward Hopper, e dalle violente e materiche pennellate dell’espressionismo astratto all’eco di David Hockney: il repertorio è vasto, la capacità tecnico-espressiva è ineccepibile. È palese la conoscenza quasi accademica della storia dell’arte, stranamente più orientata verso l’Occidente che verso le radici iconografiche autoctone.
Eppure, è proprio in questa padronanza che risiede la questione critica. Nello sforzo di domare il linguaggio formale altrui, si avverte un indebolimento della tensione spirituale e della propensione alla ricerca “nuova”. L’opera, pur formalmente impeccabile, sembra sacrificare quell’aura benjaminiana, quel carattere sacrale e originale che proietta un’espressione nel dominio dell’universalmente contemporaneo, a favore di una perizia esecutiva. L’impressione è che molta della pittura attuale cinese stia attraversando una fase cruciale di appropriazione sistematica, laddove la “ribellione” non è ancora programmata, ma demandata a un futuro superamento formale.
Il sostrato di ricerca che unisce le due sponde si configura, quindi, come una transizione antitetica.
Gli artisti cinesi sembrano porsi la domanda: «Come possiamo essere contemporanei assimilando una storia (quella occidentale) che non è la nostra origine diretta?». La loro è una ricerca dell’autonomia attraverso la padronanza di un linguaggio acquisito.
Gli artisti italiani, per contrasto, affrontano la questione opposta: «Come possiamo essere contemporanei superando una storia (quella italiana) che rischia di paralizzarci con il peso della sua eredità e del suo canone?». La loro è una ricerca dell’autonomia dal passato.
L’AACC-I 2024 fotografa, così, un momento dinamico e non pacificato della scena internazionale: un fertile limbo tra la piena assimilazione (Cina) e la sua decostruzione (Italia). La contemporaneità, nel suo significato più profondo, si manifesta in questa tensione reciproca. Quest’annuario — a mio avviso — non celebra un punto d’arrivo, ma la necessaria, e talvolta ardua, fase di transizione che precede l’emergere di una sintesi autonoma e pienamente contemporanea.