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Michele Lasala

Nato a Barletta (BT) nel 1983, ha conseguito la laurea in Scienze filosofiche presso l’Università degli studi di Bari “A. Moro”; è storico della filosofia e critico d’arte, autore di articoli, saggi e prefazioni. È contributor presso diverse riviste scientifiche e testate giornalistiche, tra cui «Philosophy Kitchen» (Università degli studi di Torino), «Micro Mega» (L’Espresso, Roma), «Europea» (Aracne, Roma), «Lo Sguardo» (Edizioni di Storia e Letteratura, Roma), «Diacritica» (Diacritica Edizioni, Roma), «La Gazzetta del Mezzogiorno» (Bari). È citato in qualità di critico nel Catalogo d’Arte Moderna (Editoriale Giorgio Mondadori), n. 56 del 2020.



Estetiche del postumano
Artisti italiani e cinesi a confronto

Stiamo attraversando un periodo di forti cambiamenti e di vistose trasformazioni, sia a livello culturale sia a livello antropologico. A incidere profondamente sul nostro modo di concepire la realtà e sul nostro stesso stare al mondo è senz’altro la tecnologia, oggi tra l’altro dotata sempre più di Intelli-genza Artificiale. A causa di tale mutamento si è coniato il concetto di “postumanesimo”, col quale si vuole appunto indicare la vistosa trasformazione che l’uomo sta subendo nel suo costante e – oramai inevitabile – rapporto con i mezzi messi a disposizione dalla tecnologia, sempre più invadenti e sempre più dominanti. Sembra, questa, una fase di transizione, in cui l’uomo si appresta a lasciare via via i panni tradizionali e abbracciare o indossare quelli offerti da una nuova era, che già albeggia al suo orizzonte. Rispetto a tutto ciò si può restare terrorizzati o addirittura incuriositi, ponendosi così o tra gli “apocalittici” oppure tra gli “integrati”, usando il lessico di Umberto Eco, che già si pose la questione rispetto però alle potenzialità intrinseche della Rete.

Gli artisti, da Occidente a Oriente, si sono interrogati sui cambiamenti in atto e sembra, per taluni aspetti, che anche tra loro ci siano gli apocalittici e gli integrati. Curiosamente, ma non troppo, avver-tiamo una certa preoccupazione tra gli artisti occidentali, mentre il postumanesimo non preoccupa più di tanto gli artisti orientali, che oramai non fanno più nessuna distinzione tra arte e tecnologia. Dando uno sguardo ampio e panoramico, e prendendo come esempio l’arte italiana e l’arte cinese, è possibile notare tale differenza. L’arte contemporanea ha iniziato a interrogarsi su tutti questi mutamenti e, con-seguentemente, sugli effetti che ne sarebbero derivati, a partire dagli anni Novanta, anche se di “po-stumanesimo” si parlava già dalla seconda metà degli anni Settanta: a coniare il termine “postumane-simo” fu infatti Ihab Hassan nel 1977. Nel 1992 però Jeffrey Deitch cura una mostra dal titolo alquan-to significativo ed evocativo insieme: Post Human, allestita prima a Losanna e poi al Castello di Rivoli. Era il periodo in cui la tecnologia iniziava a essere sempre più pervasiva e a penetrare sempre più nelle nostre vite, sino a condizionare le nostre scelte e anche i nostri gusti. La tecnologia cominciava a modi-ficare e dunque a cambiare i nostri corpi e, nello stesso tempo, a plasmare le nostre reti neuronali, in-fluendo in modo radicale sulla percezione e sulla conoscenza del mondo reale. Si diffusero sempre più e a macchia d’olio pratiche di chirurgia estetica, si andava parlando da più parti di manipolazioni gene-tiche ed erano all’ordine del giorno discussioni intorno alla robotica o al cyborg. Il corpo iniziava ad essere percepito non più come qualcosa di singolare dentro il mondo, ma come qualcosa che poteva espandersi e confondersi con esso, e questo grazie proprio all’ausilio della tecnologia. Nella mostra di Deitch furono esposte opere di artisti internazionali, da Cindy Sherman a Charles Ray, da Jeff Koons a Paul McCarthy, tutte in qualche modo legate dall’interesse comune di comprendere le trasformazioni che il corpo – e la mente – stava subendo a contatto diretto con le ultime invenzioni e le ultime pratiche offerte dal mondo tecnologico. Una riflessione etica ma anche estetica che spianava la strada ad altre e più capillari sperimentazioni artistiche che sarebbero venute subito dopo, legando l’Est e l’Ovest del mondo, in un contesto sempre più contrassegnato dal venir meno dei confini geopolitici, favorito tra l’altro dall’avvento e dalla diffusione di Internet.

Vivendo in contesto come questo, anche gli artisti italiani iniziarono a interrogarsi sul postuma-nesimo e tra i primi a farlo fu Vanessa Beecroft, la cui ricerca indagava i mutamenti che il corpo fem-minile stava subendo per effetto della chirurgia estetica ma anche a causa delle manipolazioni genetiche, che trattavano il corpo alla stessa stregua di un oggetto su cui compiere i più svariati esperimenti. Il corpo era al centro dell’interesse anche di Patrick Tuttofuoco, che sfruttava la luce per disegnare nello spazio parti del corpo umano, quasi come a prefigurare l’uomo del futuro, attraversato e addirittura co-stituito nella sua essenza da fasci di luci e da energia elettrica. La fusione di virtuale e reale, artificiale e naturale, divenne anche il terreno di indagine da parte del collettivo Claire Fontaine, le cui opere – rea-lizzate con i più diversi media – riflettevano appieno quella fusione che oramai stava per diventare cifra inequivocabile di un mondo sempre più ibrido. Micol Assaël invece, dal canto suo, andava esprimen-do l’idea secondo cui il corpo è oramai parte integrante del tutto, e non rappresenta più un ostacolo o un limite per l’uomo, ma anzi è un filtro capace di mettere in comunicazione realtà interiore e realtà esteriore. E se Micol Assaël indagava lo sfaldamento del corpo, Roberto Coughi rifletteva sulla identi-tà dell’uomo, sempre più instabile e precaria a causa delle metamorfosi che stava iniziando a subire. Naturalmente questi artisti hanno continuato e approfondito le loro ricerche sino ai nostri giorni, con-frontandosi in modo costruttivo con le espressioni e i linguaggi delle nuove generazioni, nate dentro una realtà dominata dal digitale e governata dal potere decisionale dell’algoritmo. Generazioni costan-temente in bilico tra realtà e immaginazione, reale e virtuale, e i cui lavori esprimono le ricadute sul piano psicologico di questo mondo che oramai si confonde con l’artificiale, anzi diventa esso stesso frutto della tecnologia. Da questo punto di vista indicativa è la ricerca di Diego Marcon, così come quella di Rachele Maistrello; mentre Irene Fenara riflette nello specifico su come i mezzi di sorveglian-za modificano il nostro modo di essere e il nostro comportamento, condizionando la percezione della realtà e cambiando il nostro sguardo. Gli artisti nati dopo il 1985 – come osserva Marco Bassan – «fanno parte di una generazione consapevole e curiosa, cresciuta cercando un equilibrio fra una dina-mica globalizzata e il desiderio di testimoniare un terreno filosofico scettico, nichilistico e postmoderno, accentuato negli ultimi venticinque anni da continue crisi economiche, sociali e geopolitiche e dallo sviluppo di una cultura digitale, penetrata nella quotidianità. Questi artisti sono i primi a essere cresciu-ti in un paese in grado di offrire una struttura e un sistema dell’arte contemporanea all’altezza dei grandi palcoscenici internazionali». E tra questi palcoscenici figura senz’altro la Cina, che è diventata un leader nel panorama dell’arte contemporanea. Centri come Pechino e Shanghai oramai competono con quelli più noti di Parigi, Berlino e Londra. A testimoniare della crescita del ruolo della Cina nel panorama internazionale sono per esempio artisti come Peng Yu e Sun Yuan, che esposero alla Bien-nale di Venezia nel 2019 con l’istallazione Can’t Help Myself. Accanto a loro va annoverata senz’altro Cao Fei che oramai sfrutta le potenzialità dell’arte digitale per comprendere il rapporto sussistente tra tradizione e innovazione, tra passato e futuro. Il virtuale, per Cao Fei ha una sua specifica e intrinseca estetica che va scoperta e indagata, anche per rispondere alle sfide del nostro tempo, come possono es-sere quelle legate alla crisi socio-ambientale. Gli artisti cinesi hanno cercato di comprendere con l’arte una nuova antropologia: quella costituita dall’uomo digitale, che usa anche con disinvoltura l’Intelligenza Artificiale. Questo è il territorio di esplorazione di un’artista come LuYang, che cerca di individuare e cogliere i nessi o i rapporti, nonché le implicazioni, tra virtuale, spirituale e fisico; po-tremmo dire le tre sfere o le tre dimensioni in cui l’uomo digitale si espande. Le tematiche affrontate pertanto sono quella della morte, così come quella della reincarnazione, ma anche della vita. Nel 2022 LuYang – che tra l’altro è stata presente alla 59a Biennale di Venezia – ha vinto il premio “Artist of the Year” istituito dalla Deutsche Bank nel 2010. Che la macchina sia parte integrante del corpo dell’uomo lo sa molto bene anche Sougwen Chung, artista di origini cinesi la cui ricerca indaga il rapporto tra computer e mente umana, come d’altronde dimostra una performance dal titolo Omnia Omnia, dove l’artista entra in dialogo con 20 robot che dipingono su una grande tela contemporaneamente, a dimo-strazione che anche una macchina può svolgere un’attività come quella artistica e dunque fondare una nuova estetica.

Stiamo dunque attraversando una fase di transizione, dove le trasformazioni in atto, a livello an-tropologico e culturale, passano anche – se non soprattutto – attraverso l’espressione artistica, e le molteplici estetiche del postumano stanno a testimoniare che l’uomo è posto di fronte a un grande bi-vio: sciogliersi nell’indistinto perdendo la sua unicità, oppure dominare la macchina per creare con es-sa un mondo nuovo senza minare alle basi la sua intelligenza e la sua immaginazione. È sul filo di questa doppia chance che in qualche modo corrono anche i molteplici linguaggi degli artisti raccolti in questo nuovo Annuario, che ancora una volta riesce a far dialogare, oltre ogni linea di confine, Oriente e Occidente.

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