
Zheng Lu
Dottoranda in Cultura dell’Asia Orientale presso l’Università dell’Arizona (Stati Uniti) e laureata magistrale in Nuove Arti Visive e Nuovi Linguaggi dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze (Italia). È curatrice del Dipartimento Mostre Internazionali di A60, giovane artista, critica d’arte contemporanea e autrice. La sua ricerca artistica si concentra sull’espressione culturale e sull’impatto sociale dei gruppi emarginati. Ha curato numerose mostre tematiche internazionali e ha pubblicato opere e articoli su piattaforme mediatiche globali. Il suo linguaggio creativo spazia dalla scultura all’installazione, dal video sperimentale alla performance art, con cui indaga in modo originale le relazioni tra società, cultura e individuo. Attualmente, il suo dottorato si focalizza sull’evoluzione e lo sviluppo storico dell’arte contemporanea nell’area Asia-Pacifico, con particolare attenzione all’arte partecipativa e alla psicologia sociale.
Percepire i sussurri dell’arte nel presente
La ricerca del Dao attraversa molte epoche della storia del pensiero e della cultura cinese. Ma che cos’è davvero il Dao? Nessuno lo sa dire con certezza. Allo stesso modo, la ricerca dell’ “esistenza” attraversa l’intera storia del pensiero mondiale. E che cos’è l’ “essere”? Anche qui, nessuna definizione definitiva. Usiamo questo termine ogni giorno, incessantemente — il verbo to be in inglese, essere in italiano — ma chi può spiegare cosa significhi veramente being? Con quale postura esistiamo nel mondo? E in che modo verifichiamo la nostra esistenza? Chi siamo, davvero?
I nostri occhi sono fissi nelle orbite del cranio, e ogni volta che li apriamo vediamo sempre dallo stesso punto di vista. Per questo, inevitabilmente, l’essere umano è abituato a giudicare il mondo da un centro soggettivo. Non possiamo mai osservare noi stessi separandoci dalle cose esterne. Il nostro essere non è mai stato davvero visto da noi stessi : chi può dunque dire cosa sia realmente? È come nel dialogo tra Zǐ Gòng e Zhuāngzǐ: il primo è confuso su come giudicare e comprendere il Dao, e il secondo risponde che non serve giudicare dal proprio punto di vista, basta lasciarsi fluire con la naturalezza della vita e percepirla. Guardarsi allo specchio, dialogare, camminare sulla terra, respirare l’aria, sono tutti modi di interagire con il mondo, modi in cui l’essere umano conferma la propria esistenza attraverso il contatto con l’ “altro”. In questi gesti quotidiani, consideriamo il mondo come qualcosa che esiste al di fuori di noi, e, attraverso continui urti e risposte, affermiamo “io sono qui”. Questa interazione, sebbene quotidiana, assume un significato profondo nell’arte e nella teoria contemporanea. I progetti artistici rivolti ai gruppi marginali, ad esempio, sono spesso avvolti da un’aura di valore progressivo e sperimentale: la presenza, l’empatia, la trasformazione e la sensibilità diventano risultati ideali dell’azione partecipativa, e il palcoscenico della buona volontà umana.
Eppure, tutto questo sta lentamente perdendo efficacia. Nell’epoca attuale, segnata da crisi ecologica e "paralisi" politica, tali pratiche assumono un carattere performativo; l’empatia diventa abile ma vuota; la trasformazione artistica appare sempre più come un gioco formalista di rinnovamento. Ciò che un tempo era considerato un atto di intervento positivo oggi è trascinato nell’inganno, nella ripetizione e nella stanchezza. La partecipazione, come ideale politico-morale ed emotivo, si sta svuotando dall’interno. Questo fenomeno non rivela un fallimento individuale né una mera saturazione formale, ma una crisi più profonda: la civiltà umana sembra essere caduta in una grande depressione. In questo abisso, siamo ancora “presenti”, ma sembriamo non percepirci più a vicenda.
Siamo ancora presenti, ma ci è sempre più difficile sentire davvero l’altro;
siamo ancora empatici, ma ripetiamo meccanicamente copioni emotivi già noti;
siamo ancora trasformativi, ma ciò che trasformiamo sono solo ruoli, slogan e forme - la loro forza si è ormai dissolta silenziosamente.
Così emerge una crisi più profonda della crisi ecologica: sotto la biopolitica, il crollo totale delle strutture della coscienza umana. Abbiamo smarrito il modo di sentire, di fidarci, di agire; e, di conseguenza, anche il motivo stesso per cui continuiamo a esistere. A livello individuale, ciò si manifesta in una vita imprigionata nello spettacolo prodotto dal capitalismo: i sensi si intorpidiscono, l’identità si sfuma. Ogni giorno ci svegliamo per interpretare il figlio devoto, l’impiegato diligente, lo studente modello — ma chi siamo veramente? Perché lo facciamo? Come affermano i teorici del postumanesimo e delle emozioni: non stiamo solo assistendo a una crisi ecologica, ma al collasso delle strutture stesse che danno senso al mondo.
In questo contesto, dove possiamo andare? Quale ruolo può ancora avere l’arte? E noi, come individui comuni, come possiamo affrontare questo lento crollo? Quando le strutture del significato e della percezione si disgregano completamente, l’arte può ancora esistere? Può ancora proporre un modo di sentire diverso dai copioni già scritti? In questa "mostra" che si realizza sulle pagine dell'Annuario, alcune opere offrono forse una risposta tenue, come un sussurro all’orecchio.
Le pitture a olio di Hu Hengming e Ding Xiaoyin si concentrano sulla rappresentazione della vita quotidiana. Ma non si limitano a riprodurre scene familiari: attraverso la finezza delle immagini trasmettono le emozioni e i dilemmi nascosti nella quotidianità. L’opera di Ding Xiaoyin, La barca è una gabbia sull’acqua, è una metafora della condizione umana: come le persone, nella fluidità della vita, siano imprigionate dalla realtà. In Archeologia della memoria, Hu Hengming sembra scavare le tracce del passato, trattando il quotidiano come strati di memoria sedimentata. Le loro opere ci ricordano che l’esistenza non ha bisogno di grandi narrazioni: talvolta è proprio nello sguardo lento e silenzioso che sentiamo davvero “io sono qui”. In un’epoca di caos, questo sguardo diventa una forma delicata di resistenza. Ed è proprio questa espressione quotidiana e riflessiva che costruisce il sé autentico. L’opera di Li Chengxi, Where to go the path?, con la sua forma minimalista, pone la domanda più urgente del nostro tempo. Non è un grande quadro, ma irradia un senso di vuoto palpabile: sembra la voce di un essere umano comune, ai margini delle rovine, che si chiede — Chi sono? Dove sto andando? Esisto davvero? La serie Qiwu – Miraggio di Yan Chengbin, ispirata al pensiero di Zhuangzi, costruisce uno spazio illusorio e sfuggente: il miraggio è al tempo stesso illusione della realtà e realtà dell’illusione. Essa richiama l’etica percettiva del “non distinzione tra sé e le cose” di Zhuangzi, e pone un’altra domanda: siamo davvero capaci di empatia o stiamo solo recitando in un teatro di illusioni costruite? Nel dimenticare la distinzione tra soggetto e oggetto, riusciamo davvero a incontrare l’ “altro”?
Queste opere non offrono risposte, ma sussurrano risposte deboli e intime. Davanti a questioni così vaste, nessuno può dare una risposta definitiva. Eppure esse ci tirano dolcemente fuori, anche solo per un istante, dalle strutture ormai inerti — come una brezza non ancora contaminata, una fessura non ancora chiusa. Nel momento in cui l’umanità sprofonda nella nebbia dell’esistenza, queste opere ci ricordano che qualcosa è ancora percepibile, che un dialogo è ancora possibile, che il Dao non è stato completamente sepolto. La vita stessa è il modo più autentico di resistere alla biopolitica: continuare a vivere, a sentire, è la terza via contro l’assurdo.